Il caffè

Il caffè è una bevanda ottenuta dai semi delle piante definita coffea tostati e macinati e trattati con acqua.
L’espresso è l’emulsione risultante da un’azione combinata d’acqua calda e pressione della miscela in grani tostati e macinati.

Le origini

Il caffè è una bevanda ottenuta dai semi delle piante definita coffea tostati e macinati e trattati con acqua.
L’espresso è l’emulsione risultante da un’azione combinata d’acqua calda e pressione della miscela in grani tostati e macinati.
Il caffè è una pianta africana, d’origine etiope scoperta per la prima volta nella città di Kaffa.
La leggenda narra che il suggerimento al consumo di caffè venne dalle capre di un pastore etiope di nome Kaldi, gli animali parevano in uno stato d’agitazione, ogni qual volta si trovavano a brucare i semi, in prossimità della maturazione, di una questa pianta. Kaldi provò ad assaggiare i semi, ma consumo della bacca e dei semi a crudo era poco gradevole, essendo ricchi di tannini verdi e grassi. La conoscenza del consumo del caffè tostato come lo conosciamo noi oggi fu casuale e fu dovuto ad un incendio devastante che incenerì il bosco e le relative sterpaglie in prossimità del pascolo di Kaldi. L’aroma che si sparse nell’ambiente circostante fu alquanto piacevole, il pastore provò ad assaggiare i semi bruciati che avevano cambiato consistenza e gusto, e a farne un decotto. La tostatura pronunciata dei chicchi non rese il sapore piacevole, ma visti i risultati in termini di attenzione e eccitazione, il pastore insistette con la ricerca del grado giusto di “bruciatura” dei semi.
Passò molto tempo, prima che si potesse gustare il caffè come noi lo conosciamo.
I primi cenni di letteratura sulla pianta risalgono al 900 a.c. e sono d’origine araba, la bevanda viene citata dal fisico arabo Rhazes, ma non vi sono notizie sul suo consumo in forma liquida.

L'utilizzo del frutto e le prime "ricette"

Il frutto era usato come cibo, medicina e per avere energia, le bacche erano frantumate e mescolate a grasso animale, creando cosi un cibo energetico e non deperibile atto a dare una sferzata d’energia ai pastori.
Un altro procedimento prevedeva la preparazione di un composto con fagioli e bacche di caffè che lasciato fermentare, formava un liquame eccitante, assunto in particolari situazioni di necessità.
La bevanda ottenuta fu chiamata il vino d’Arabia, ma a differenza del vino d’uva, quello fatto con il caffè si beve appena fatto, poiché i grassi si ossidano velocemente e danno un sapore di rancido.

Il caffè alla conquista del mondo tra sotterfugi e tradimenti

Il cammino del caffè alla conquista del mondo registra alcuni momenti fondamentali.
Fino alla fine del 1600 tutto il caffè arrivava dall’Arabia, mentre a partire dai primi del 1700 s’incominciarono a piantare coltivazioni all’esterno del paese, nonostante che l’esportazione dei semi non tostati fosse vietata e punita con la morte.
La storia ci stupisce con i suoi eventi e quella del caffè non è da meno, ricca di sotterfugi, tranelli e spie.
I primi sono gli olandesi che da abili mercanti non potevano farsi sfuggire un business così ricco, infatti pagano delle spie per trafugare i semi crudi del caffè, per poterli successivamente piantare sull’isola di Giava.
I francesi misero in atto un piccolo sotterfugio per appropriarsi d’alcune piante, ad opera del capitano De Lieu che nascose nella stiva alcune “barabatelle” di caffè, mentre era fermo per rifornirsi di cibo nel porto dell’Isola olandese.
Giava non rimase a lungo l’unica piantagione di caffè, il capitano portò le preziose piante alla volta delle piccole Antille francesi.
Le piante furono le uniche cose che il capitano si preoccupò di salvare durante lo sfortunato naufragio della sua nave proprio, quando il viaggio sembrava quasi finito.
Raggiunta sulle scialuppe l’isola, le piantine furono messe a dimora, addirittura poste sotto sorveglianza armata e curate ogni giorno nel timore che il naufragio le avesse danneggiate.
Cinquanta anni dopo sull’isola francese si contavano 17 milioni di piante.
Come gli arabi anche gli olandesi e i francesi fecero di tutto per mantenere il monopolio della produzione, alimentando una rivalità acerrima dovuta al torto che questi ultimi fecero trafugando le piante.

Ma anche amore...

Come arrivò il caffè in Brasile che oggi n’è il più gran produttore mondiale?? Sempre grazie ad un sotterfugio.
Pare che un governatore brasiliano di una contea al confine con la Guayana Francese, dove nel frattempo si erano poste a dimora altre piante di caffè, divenne “buon amico” della moglie del governatore francese. La donna compiacente, durante uno dei suoi incontri gli regalò un bellissimo mazzo di fiori dove al suo interno erano abilmente celati dei rami con dei semi di caffè.

I caffè alla conquista dell'america

Il caffè in America arrivò con gli olandesi nel porto di New Amsterdam ora New York e fu un bene, infatti, sostituì come colazione la birra… consumata in gran quantità dagli scaricatori di porto.
A New York si aprirono le prime taverne, ma il consumo del caffè rimase un’esclusiva del ceto ricco, mentre il popolo consumava il the venduto più a buon mercato.
Il discorso cambiò, quando Giorgio III d’Inghilterra decise di tassare il thè in arrivo in America.
Si scatenarono rivolte popolari che ebbero il loro culmine nella conquista delle navi alla fonda nel porto di Boston. Queste navi trasportavano thè che fu gettato in mare sancendo il successo del caffè e la fine del consumo di thè in America. Questo episodio storico è noto come Boston Tea Party.

Le prime macchine del caffè

La storia delle macchine del caffe è alquanto antica.
Nel 1815 il sig. Dingler mise a punto un bollitore che preparava un caffè estratto tramite sospensione, tipo alla turca, che aveva il pregio della velocità, ma che non si avvicinava alla fragranza e alla persistenza di un caffè odierno.
Nel 1855 Eduard Loysel mise a punto una macchina che per estrarre il caffè utilizzava la forza cinetica del vapore, quindi eliminava il recipiente in cui il caffè era in sospensione.
Perfezionando tale modello nel 1906 la Pavoni costruisce il modello Ideal che raggiungeva le 150 tazze l’ora e che sfruttava sempre il vapore sviluppato da una caldaia.
Nel 1935 Illy eliminò la cinetica del vapore che dava rischi per la sicurezza e scarsa estrazione e la sostituì con l’aria compressa e nel 1938 Cremonesi creò una macchina con il gruppo a leva che applicò ad una macchina del bar d’Achille Gaggia.
Nel 1948 il sig. Gaggia sfruttò l’invenzione del sig. Cremonini ed incominciò a produrre una macchina con una leva che si caricava grazie ad un mollone azionato dalla forza del barista. Questa tecnologia estraeva a perfezione il caffè e questa è una tecnologia che sopravvive ancora oggi in molte macchine da bar.
Nel 1956 la Cimbali brevettò invece il gruppo idraulico che sfruttava la pressione della rete idrica e nel 1961 la Faema risolse tutti i problemi utilizzando una pompa elettrica che comprimeva l’acqua calda creando i presupposti per un’estrazione perfetta del caffè. La macchina chiamata E61 è tuttora il mito delle macchine da caffè espresso.
La macchina del caffè espresso è un’invenzione tutta italiana e nasce per creare un risparmio sulla quantità di caffè utilizzata per la preparazione della bevanda.
Questo prodotto era molto carente nel dopoguerra, ma grazie alla macchina da espresso con 7 grammi di caffè si ottiene un ottimo prodotto con crema ed aroma.
Le moderne macchine da espresso hanno una temperatura dell’acqua che si aggira intorno ai 85/90 gradi e una pressione di 1.2 bar.

La pianta

Il caffè è una pianta arbustiva e le tre specie usate per la torrefazione sono: arabica, robusta e liberica.
La specie arabica cresce nei climi umidi e ombreggiati, fiorisce una sola volta all’anno con fiori piccoli di colore bianco a 5 petali e nel profumo ricordano il gelsomino. Il fiore avvizzisce e da esso scaturisce la drupa di colore verde che dopo circa sei mesi vira verso il rosso e a fine maturazione nel marrone. Il contenuto in caffeina non supera l’ 1,5%.
La specie robusta ha un fiore con 6 petali, cresce in zone pianeggianti o di bassa collina, fiorisce più volte l’anno ed è più resistente ai parassiti. Il suo contenuto in caffeina è del 3-4%.
L’ultima specie è la liberica, qualità poco pregiata e ormai scarsamente usata.

I sistemi di raccolta e produzione

La raccolta del caffè avviene a mano (picking) e a macchina con appositi pettini (stripping).
La prima permette un raccolto selettivo delle drupe a giusta maturazione, mentre la seconda raccoglie un prodotto disomogeneo di bacche a differente maturazione.
La drupa è formata da una membrana esterna chiamata esocarpo, che contiene due semi piano-convessi con un piccolo solco. Sono posti in maniera speculare e sono divisi da una membrana detta pergamino.
Due sono anche i metodi di produzione: il primo detto “naturale” prevede l’essiccazione al sole in appositi essiccatoi, dopo di che i semi vengono decorticati e setacciati.
L’altro sistema detto a “umido” prevede la permanenza per 36 in acqua dei semi lavati e spolpati, a cui sono tolti i residui della membrana tramite un successivo lavaggio, ottenendo così il caffè “nudo”.
Da qui si essicca per entrambi i metodi, si confeziona in sacchi da 60 kg e spedisce ai torrefattori.
La tostatura è l’operazione più delicata che determina il carattere del caffè e che gli permette di sprigionare le caratteristiche di profumo e gusto che ne hanno decretato il successo.
Tramite il processo di torrefazione si fornisce calore ai chicchi in genere 200-230 gradi per 15 minuti che perdono la colorazione verde, per assumere quella marrone a noi conosciuta.
La miscela migliore di caffè prevede un 90% d’arabica e un 10% di robusta.

Le specie di caffè

L’Arabica da gusto e aroma, mentre la Robusta da caffeina e nella fase estrattiva va a formare la crema. Unica eccezione la varietà giamaicana “Blue Mountains”, caffè raro e costosissimo che non necessita di nessuna miscelazione.

La qualità della bevanda

Il caffè con la schiuma molto chiara è sotto estratto con gusto leggero e acquoso, questo problema è dovuto a scarsa pressione dell’acqua, oppure ad una minor quantità di caffè, a macinatura grossolana o scarsa pressatura della miscela.
Nel caffè sovraestratto invece abbiamo schiuma marrone scura ed il gusto è amaro e bruciato. Qui possiamo avere la macinatura troppo piccola che non fa passare l’acqua, la pressione troppo alta o la troppa miscela.
Il buon caffè ha la caratteristica schiuma tigrata che trattiene lo zucchero per un certo numero di secondi prima di farlo affondare.
Il caffè di sola Robusta ha il classico sentore legnoso e schiuma spessa che non fa affondare lo zucchero, infatti sfatiamo il mito che un buon caffè ha una crema impenetrabile…

Il thè

Il the è una pianta conosciuta da più di 5000 anni, ma il consumo del the verde e poi del the nero incomincia ufficialmente 3000 anni fa.
Il the è una pianta delle cameliacee e quelle da cui si ottiene il the sono la sinensis e l’assamica detta anche indiana.

Le origini della pianta e le leggende a lei legate

Il the è una pianta conosciuta da più di 5000 anni, ma il consumo del the verde e poi del the nero incomincia ufficialmente 3000 anni fa.
Il the è una pianta delle cameliacee e quelle da cui si ottiene il the sono la sinensis e l’assamica detta anche indiana.
Le origini della pianta sono da ricercare proprio nella regione dell’Assam, nell’India orientale, dove migrò poi in Cina.
Oggi è la bevanda tonificante più bevuta al mondo, contando su milioni di consumatori in Asia, America ed Europa.
Al solito l’origine del the si perde in una leggenda, in questo caso un imperatore cinese Shun Nung che era in viaggio per visitare i suoi sudditi e cacciare tigri, si fermò per ristorarsi e pose dell’acqua a bollire sul fuoco. Si narra che alcune foglie secche di una pianta caddero casualmente nella pentola che bolliva, colorando l’acqua. Il liquido assunse una colorazione gialla ambrata, l’imperatore incuriosito assaggiò il liquido che trovò ottimo, in più dopo poco tempo si sentì di nuovo sveglio e sollevato fisicamente. Altra leggenda ancora più singolare riguarda un monaco buddista, il pio Darma, il quale era solito passare le notti in veglie d’ascetiche di preghiera. Una notte vinto dal sonno si addormentò, cosicché il mattino seguente preso dall’ira si strappò le palpebre. Miracolosamente il giorno dopo, nel luogo dove erano state lanciate via le palpebre, crebbero due piantine sempreverdi, la cui infusione aveva il dono di togliere il sonno e tonificare.

Il the come alimento

Il the in Cina e Tibet è anche un alimento, infatti, è bollito, pestato e ridotto in poltiglia, quindi è condito con latte, cipolla, zenzero per fare da condimento al riso.

La diffusione del the e i principali produttori

I principali paesi produttori sono la Cina, l’India, lo Sri lanka, Giappone, Indo Cina, Malesia. I principali pionieri del the in Europa furono gli olandesi, i quali fondarono una compagnia mercantile che assunse il monopolio commerciale del the. Nel 1610 grazie a loro arrivò il primo carico di the in Europa.
Il the non ebbe successo, infatti, il carico navigò invenduto da Amsterdam a Londra in cerca di clienti interessati.
Il successo arrivò lentamente e grazie alle lodi che i medici tessevano del the, in quanto corroborante e tonico del corpo.

Il the delle cinque

Le vendite crebbero lentamente e il consumo da un iniziale scopo medico si trasformò in normale ed in ore strategiche della giornata, come il “ the delle cinque” a Londra.
Gli inglesi inizialmente diedero la loro preferenza di consumo al caffè, infatti fra tutte le bevande esotiche che presero la via dell’Europa, il “vino d’Arabia” fu quella che ebbe il maggior successo fra il popolo.
Il the era relegato agli strati alti della nobiltà che ne consumava nel 1690 poche migliaia di chili, a fronte di tonnellate di caffè, ma nel 1700 il prodotto incominciò a crescere fino ad arrivare ai 4 milioni di chili.

L'America una nazione fondata sul the

Storia più affascinante è quell’americana, una nazione nata grazie al the, i primi importatori furono olandesi, i quali decisero di creare nel 1626 su un’isola acquistata dagli indiani, in mezzo al fiume Hudson, la loro prima stazione commerciale. La ribattezzarono New Amsterdam e da lì partirono alla conquista dell’America, in questa propaggine di terra tutti gli immigrati che giungevano dall’Europa in cerca di fortuna presero il via e furono schedati sull’isola al largo della città conosciuta come Ennis Island. Circa una ventina d’anni dopo la rappresentanza inglese superò di molto quell’olandese al punto che acquistata la città dagli orange la ribattezzarono New York, il centro di affari più importante degli Stati Uniti.
Si narra che i primi coloni bollivano le foglie del the, ne bevevano il liquido e si cibavano delle foglie che erano condite con burro e sale e rosolate.

La pianta e la sua cura e le tipologie di the

La pianta è continuamente potata per permettere la continua raccolta delle foglie apicali dette pekoe.
Le inflorescenze sono dette the bianco. La fogliolina più piccola è detta flowery orange pekoe.
Quella in crescita a fianco, ma leggermente più sviluppata, Orange pekoe.
La foglia dopo è detta Pekoe, la successiva Pekoe souchong, mentre la più lontana solo souchong.
Sulla scatola leggiamo l’etichetta per capire da cosa è composto il nostro the.
I principali the sono:
Nero: fermentato
Oolong: semi fermentato prodotto in Cina e Formosa
The verde: the non fermentato essiccato in particolari forni
The bianco: solo le inflorescenze essiccate e avvizzite
The scented: aromatizzato con aromi tipo Earl Grey al bergamotto.
L’infusione del the si prepara con acqua bollente, ma non bollita.

Il cacao

Il cacao è un prodotto d’origine antichissima, se pensiamo che gli Amerindi, una popolazione precolombiana stanziata nel Messico utilizzava le bacche della pianta come moneta di scambio.

Le origini della pianta e le sua diffusione

Il cacao è un prodotto d’origine antichissima, se pensiamo che gli Amerindi, una popolazione precolombiana stanziata nel Messico utilizzava le bacche della pianta come moneta di scambio.
L’oro, di cui la popolazione era ricchissima e che fu il motivo scatenante del loro massacro da parte degli spagnoli, era un semplice metallo decorativo. Tali popolazioni non riuscirono, a capire l’interesse morboso dei bianchi per il metallo dorato, considerato che il popolo Atzeco regolava i prezzi di mercato di tutti i generi alimentari in base all’andamento del raccolto di cacao e non sulle riserve auree.
Il cacao era utilizzato come cibo propiziatorio e il suo consumo era esclusivo della casta sacerdotale, ma il cacao che beveva Montezuma, era amaro, speziato e piccante, lontano dalla bevanda che noi conosciamo.

Il cibo degli Dei

Il sostantivo theobroma deriva dal nome che Linneo diede a questa pianta giudicando il cioccolato il cibo degli dei da cui Teo Broma. L’arrivo della polvere di cacao in Europa non fu certo trionfale, dobbiamo aspettare che i maitre chocolatier elaborano la polvere per avere un prodotto dolce e saporito.
Alla corte di Luigi XVIII il cacao e relativo cioccolato ebbero un tale impulso che si raggiunse un tale livello di “depravazione” che il Re ad un certo punto vietò la produzione di cioccolato a corte.

I paesi produttori

I semi amari sono ricchi di sostanza grassa e molto profumata ed occorre una fermentazione per staccare le membrane che ricoprono le drupe e una successiva essiccazione per concentrare le sostanze nobili.
Le specie più pregiate appartengono al Madagascar, mentre Venezuela, Equador, Brasile e Colombia producono prodotti ottimi ma meno fini in termini di qualità organolettiche.
La preparazione della cioccolata al bar prevede 10 gr di cacao in polvere 100 ml d’acqua o latte, 20 gr di zucchero, 3 grammi di fecola come addensante. Sempre più spesso però si adottano preparati in busta a cui basta aggiungere latte o acqua per gli intolleranti al lattosio.

I nuovi attori del mercato

Nell’ultimo periodo stiamo assistendo sempre di più alla nascita di atelier di artigiani del cioccolato con prodotti di eccellenza, ricordiamo Guido Castagna e Guido Gobino fra i più prestigiosi e attualmente di moda.
Ma gli artigiani si stanno moltiplicando in giro per l’Italia ed il rinnovato interesse per il cioccolato si evidenzia anche per la nascita di numerose kermesse come Cioccolatò, con sede a Torino, patria indiscussa del cioccolato italiano, che diede i natali al famoso Gianduiotto. La nascita del prezioso e gustoso cioccolatino si fa risalire alla metà del 1800 e fu inizialmente una forma di ripiego. Come spesso accade le bontà che ci sono arrivate fino a noi nascono da sbagli o da situazioni contingenti spesso negative.
Nel 1600 Torino era già la patria del cioccolato, a corte dei Savoia si consumavano ingenti quantità di prodotto, simbolo di potere ed esclusività. Nel secolo successivo il suo consumo si diffuse anche nelle fasce borghesi e meno abbienti diventando un prodotto comune nella dieta di ognuno. Con il dominio napoleonico e le alterne fortune delle alleanze con i francesi del regno piemontese, il cacao fu oggetto di embargo punitivo nei confronti dei nemici savoiardi.
I cioccolatieri piemontesi presi dallo sconforto si disperarono sulla mancanza di materia prima per sopperire agli ingenti ordini da evadere di cioccolata, ma a metà 800 il maitre cioccolatiere Caffarel e i suoi colleghi, presero a diluire il cacao con la pasta di nocciole.
Questa materia prima era abbondate in Piemonte, patria della “tonda gentile”, la più pregiata nocciola al mondo, ancora oggi molto ricercata per la sua finezza.
Nel 1865 Caffarel lanciò sul mercato un prodotto rivoluzionario, il “gianduiotto” una pralina gustosa fatta di pasta di nocciole e cacao che chiamò così in onore della maschera di Torino, Giunduja. La forma originale a spicchio e la preziosa carta dorata ne faceva un prodotto unico nel suo genere.
Ancora oggi Caffarel ha l’esclusivo permesso di riprodurre l’effige della famosa maschera sui suoi prodotti.

Barili, botti e tini

I contenitori in legno rivestono da sempre una grande importanza nel mondo dei vino e dei distillati.
Nacquero dall’esigenza di avere un oggetto atto al trasporto dei liquidi leggero, pratico e poco costoso, maggiormente resistente agli urti di altri materiali dell’antichità come la terracotta usata per le anfore.
L’uso dei metalli si limitò alla fabbricazione di oggetti legati al consumo a tavola del vino per via del peso e del costo che avrebbe comportato un contenitore di questo materiale.
L’evoluzione nella loro lavorazione, la scoperta di leghe leggere ha in parte cambiato il panorama attuale e  l’uso di serbatoi metallici è molto diffuso nelle cantine, sopra tutto per la fermentazione, e nelle distillerie per il breve riposo successivo alla produzione per smorzare la classica irruenza prima dell’invecchiamento o della commercializzazione.
Per quanto riguarda i distillati sopra tutto l’uso di questi contenitori risulta marginale ai fini del bouquet finale ed una loro trattazione approfondita sarebbe inutile trattandosi di contenitori inermi ovvero che non cedono nessun principio aromatico.
Discorso ben diverso per barili, botti e tini le cui variabili qualitative influiscono nettamente sul carattere finale del distillato.

I motivi sono molteplici infatti con il legno abbiamo:
– la lenta permeazione dell’ossigeno grazie alla naturale porosità del legno.
– il rilascio di sostanze estraibili in soluzione idroalcolica come tannini, cumarine, lattoni e fenoli volatili ed aldeidi che saranno approfonditi in seguito.
Tannini: giocano un ruolo fondamentale a livello sensoriale con una sensazione di astringenza sulla lingua e percettibile sentore amaro. Non hanno invece profumi al naso. Se il legno è giovane il rischio è che siano troppo verdi ed aggressivi ed è il motivo per cui le doghe di legno vengono messe a stagionare per almeno 3 anni all’aperto a contatto con gli agenti atmosferici grazie al dilavamento con acqua piovana.
Cumarine: sono responsabili dei sentori amari specie in legni poco stagionati.
Lattoni: derivano dalla frazione lipidica del legno e sono responsabili di moltissimi profumi come la vaniglia (vanillina), le spezie dolci, il cacao, mandorla ed il cocco (metil-octolattone). La tostatura tende ad aumentarne la formazione ed il rilascio.
Fenoli: composti aromatici il principale profumo ricordato è il chiodo di garofano (eugenolo) , di seguito la cannella.
Aldeidi: la principale è l’aldeide vanillica. Sono responsabili di moltissimi profumi dolci.
Norisoprenoidi: il loro contributo aromatico è lieve ma comunque presente.

 

ORIGINI

Le prime notizie ci arrivano dagli assiro babilonesi che utilizzavano gli antenati delle botti ovvero grossi tronchi di palma scavati chiusi da un coperchio di legno.
Mancava la tecnologia per la produzione delle doghe, le sottili liste di legno che unite formano le moderne botti ma si intuì fin da subito la potenzialità del legno, leggero e resistente, rispetto alla terracotta, fragile e poco pratica nel trasporto. In un geroglifico egizio risalente al 2.700 a.C. viene raffigurato il mestiere del bottaio che come detto era in realtà un cesellatore del legno.
Il concetto di cessione di essenze era ancora lontano ed il legno utilizzato era semplicemente scelto in base alla disponibilità. Solo successivamente si compresero i meccanismi chimici legati alle trasformazioni del vino in botte, sicuramente in maniera empirica, ovvero notando che il prodotto trasportato in botte per un certo periodo ed in determinato legno, assumeva caratteristiche migliori.

La prima testimonianza sulla fabbricazione arriva da Catone (95- 40 a.C.) che la descrive così” Lega le botti di legno di quercia con il piombo e fasciale con tralci di vite secca, poi introduci nelle fessure del mastice fatto di cera, resina e zolfo sciolti sul fuoco ed ai quali aggiungerai gesso per renderlo denso e con esso spalma anche le botti”.
L’uso della quercia e la tradizione francese dei bottai, grazie al popolo dei Celti, ha origini antiche poiché Strabone (64- 24 d.C.) scrive che dalla Gallia Cisalpina si costruivano grandi botti e Plinio dice di essere cauti nella loro pulizia poiché era alto il rischio di asfissia.
Il Nord Italia e l’Europa Occidentale sede delle cultura celtica sono grandi fabbricatori di botti e una cronaca romana del 238 d.C. di Vitruvio ci riferisce che l’imperatore Massimino attraverso l’Isonzo con le sue truppe costruendo un ponte di fortuna legando insieme migliaia di botti.

Con la fine dell’impero romano il vino diventa monopolio di monaci e frati che grazie alle mura delle abbazie e all’uso liturgico fanno sopravvivere la cultura dell’enologia.
Le botti vengono prodotte nelle officine dove laboriosi monaci perfezionano la loro costruzione.
Il sapere della loro costruzione si diffonde e vi sono notizie di maestri bottai in Piemonte, sopra tutto nella val Maira, in Sicilia e Sardegna.
Nel 1500 Pier de Crescenzi racconta che in Piemonte vi sono cantine con grandi botti colme di vini vecchi che sono il vanto dei viticoltori locali.
Nel 1596 Andrea Bacci autore di diversi scritti sul vino descrive la pigiatura e la fermentazione all’interno di grossi tini di legno “fabbricati con quercia o altro legno robusto”.
Di questa data fino alla fine del 1700 ci sono un infinità di notizie su bottai e produzioni, sia per i distillati che per il vino. Sino ad arrivare ai primi testi di enologia e viticoltura, complessi ed approfonditi, vere pietre miliari dell’enologia italiana firmate da Villifranchi, Ottavio Ottavi e poi da Arnaldo Strucchi che analizzeranno in maniera dettagliata i recipienti vinari che nel frattempo si erano arricchiti dell’uso delle prime resine e del cemento armato.
 

LA MATERIA PRIMA

Il legno maggiormente usato è quello di quercia che ha alcuni biotipi che crescono in determinate aree del pianeta. Per una questione pratica vengono indicate solo le specie maggiormente utilizzate tralasciando alcuni usi locali sporadici di Quercus Pubescens e Cerris. Secondo una teoria accreditata in base ai premi vinti da vini e distillati, le botti migliori sono composte da querce francesi delle due prime specie.
Normalmente le botti sono ottenute con proporzioni variabili di doghe di legno delle prime due biotipi di querce che garantiranno un corretto apporto di tannini e sostanze aromatiche.

Quercus Petrea Sessilis che preferisce terreni aridi e silicei. E’ poco esigente in fatto di umidità, luce e sostanze nutritive. Vive bene fino a 1200 metri slm ed è molto longeva arrivando a vivere dai 300 ai 700 anni. Ha una crescita meno rapida della Peduncolata, è più porosa e meno compatta ed è più povera di tannini, ma assai più ricca di sostanze aromatiche.
Quercus Robur o Peduncolata preferisce i terreni umidi e calcarei preferibilmente ad altezze inferiori rispetto alla precedente. Necessita di terreni fertili e di piogge regolari.
Quercus Alba o quercia bianca americana. Comune nelle regioni centrali del Nord America. Di grosse dimesioni può raggiungere i 35 metri ed i 150 cm di diametro. Ha una composizione molto diversa dalla quercia europea in quanto ha molti meno tannini e polifenoli ma ha una grossa quantità di lattoni, le sostanze aromatiche responsabili dei profumi dolci dei vini e dei distillati. Il motivo per cui tendenzialmente bourbon e vini americani hanno note vanigliate piuttosto importanti è dovuto all’uso massiccio di questo legno per la fabbricazione di botti.

Vi sono poi altri legni usati come il castagno, molto utilizzato in Piemonte e Toscana, il frassino, usato per lo stoccaggio dei vini in fermentazione o per particolari macerazioni di liquori come il cherry brandy, il ciliegio usato sopra tutto per l’aceto balsamico, il mandorlo usato sporadicamente per l’invecchiamento della grappa detta in passato mandorlata, infine melo e pero per via delle interessanti cessioni aromatiche che ricordano il frutto, ma con grossi problemi di tenuta.
Tutti gli alberi sono abbattuti generalmente d’inverno quando è minore la quantità di acqua nel tronco 

PROVENIENZA DEL LEGNO

Rovere di Allier : provengono dal Massiccio Centrale, molto noto fra gli addetti ai lavori per le sue caratteristiche. La specie è soprattutto la Sessilis che qui cresce su terreni freschi ed argillosi, asciutti e poco fertili. Il legno ha grana molto fine indicata sopra tutto per i vini.
Rovere di Troncais: è la foresta eletta del dipartimento di Allier di cui rappresenta il grand cru per fare un paragone enologico. E’ il legno più rinomato e costoso al mondo. Il suo legname ha una grana molto fine che addirittura impedisce il riconoscimento degli anelli di crescita. La fittezza di impianto crea tronchi molto retti e cilindrici privi di nodi (porzioni di rami inclusi nel tronco).
Rovere di Cher: proviene dalla foresta di Saint Palais, ha una buona tannicità leggermente superiore alle due precedenti. Legno poco noto in Italia.
Rovere di Nevers: il suo legno è una via intermendia fra il pregiato Troncais e il Limousin. Trova vasto impiego in Borgogna.

Rovere di Limousin: zona caratterizzata da terreno argilloso calcareo fresco e fertile dove cresce molto bene la Peduncolata. Il legno ha grana grossa e notevole ricchezza di sostanze estrattive sopra tutto fenoli e tannini. Questo è il classico legno per l’invecchiamento dei distillati.
Sconsigliato su vini tannici come il Nebbiolo.
Rovere di Guascogna: qui cresce bene la Peduncolata che viene usata per la fabbricazione esclusiva delle botti per l’armagnac.
Rovere di Slavonia: è una regione della Croazia nota fin dal XIX secolo per i suoi legni pregiati. Le querce Peduncolate sono particolarmente alte e prive di nodi. Sugli ambienti collinari domina invece la Sessilis che ha anch’essa ottime caratteristiche per la costruzione di botti.
Essendo povera di sostanze aromatiche e ricca di tannini è indicata per l’invecchiamento di distillati piuttosto che del vino.
Rovere Austriaco: ha un’area produttiva limitata ma è considerato molto pregiato.
Rovere Tedesco: la zona del Palatinato produce ottime doghe sopra tutto segate per botti grandi.

All’interno delle foreste europee coesistono i primi due biotipi con percentuali variabili e la qualità del legno ha peculiarità uniche e diverse per ogni zona anche a fronte della medesima specie. Questo accade anche per i vitigni, infatti è indubbio che un Cabernet Sauvignon, pur mantenendo le sue qualità peculiari,  muti il suo corredo aromatico a seconda della zona di coltivazione. La vite, così come le piante, leggono il territorio pertanto un Cabernet Sauvignon allevato in Sicilia sarà diverso da uno coltivato in Trentino o da un bordolese.
La grande tradizione francese nella conduzione delle foreste e nella produzione di legno ha origini lontene infatti fu Colbert, ministro del Re Sole a stabilire i primi statuti sulla forestazione della quercia a salvaguardia del patrimonio boschivo.
L’implementazione di questi boschi fu fortemente voluta dai re francesi per fornire di robusto fasciame la flotta sia mercantile che da guerra per contrastare il dominio inglese e francese.
Successivamente ci si accorse anche dell’eccellente qualità del legno per la produzioni di botti che fece la fortuna dell’enologia francese.

CARATTERISTICHE DEL LEGNO

La parte del tronco utilizzata dal bottaio è il durame o massello corrispondente alla parte centrale del tronco costituita da cellule xilemiche fisiologicamente morte che hanno subito un processo di duramificazione, ovvero la trasformazione dell’alburno, la parte più esterna del tronco più giovane ancora viva e funzionante.
Praticamente i vasi legnosi utilizzati dall’albero per trasportare la linfa vengono occlusi naturalmente, nella formazione del durame, dalle tille li che “cauterizzano” determinando la tenuta delle doghe del durame.
Se si usa una quercia senza questo tipo di processo (quercus rubra) o l’alburno avremo delle botti che non avranno tenuta e si rischieranno marciumi e muffe.
La grana del legno è un elemento fondamentale poiché questa determina la quantità di sostanze cedute al liquido.

La grana, ovvero la porzione annua d’incremento del tronco, si misura con l’ampiezza dell’anello.
Questa viene influenzata dalla specie e dall’età della quercia ed anche dall’area di allevamento, così come annualmente dall’andamento pluviometrico e climatico.
I legni a grana grossa corrispondono ad alberi ad elevata velocità di accrescimento. Presentano una minor porosità che si traduce in scambi limitati fra ossigeno e liquido, quindi una maturazione più lenta. Vengono rilasciate una maggiore quantità di sostanze come fenoli ed aldeidi ma con un minor potenziale aromatico.
I legni a grana fine corrispondono a cerchi annuali di ampiezza minore ed ad una crescita più lenta dell’albero. Pur rilasciando una minor quantità di sostanze queste hanno un maggior potenziale aromatico come aldeidi benzoici come la vanillina e lattoni.
 

IL TAGLIO DELLE DOGHE

Le doghe possono essere ottenute sostanzialmente in due modi.
Doghe segate.
Dopo il taglio del tronco si possono segare con lame meccaniche per la costruzione di botti grandi e medie variabili dai 5 ai 10 ettolitri con spessori superiori ai 4 centimetri.
A differenza dello spacco non si deve necessariamente seguire la struttura del legno poiché questa viene compensata dallo spessore della doga.
Doghe a spacco
Vengono ricavate da toppi (frazione del tronco destinata alla fabbricazione di botti) diritti di almeno 50 cm di diametro.
Lo spessore delle doghe varia da 20 a 22 millimetri, molto sottili quindi, per favorire lo scambio con l’ossigeno esterno.
Lo spacco implica un grande spreco di legno, dal 60 all’80% per via della difficoltà dell’operazione che deve seguire gli anelli di accrescimento per garantire la robustezza necessaria.
Il taglio avviene con un apposita macchina somigliante ad un grande scalpello azionato idraulicamente.

ESSICCAZIONE

Una volta spaccate le doghe vengono poste a stagionare all’esterno della fabbrica di botti.
Questo perchè il legno deve perdere umidità raggiungendo la percentuale ottimale variabile dal 12 al 18% perdendo quindi volume e peso totale.
Questa operazione può essere svolta in maniera artificiale in speciali forni o al naturale.
Nel secondo caso la stagionatura durerà da 12 a 36 mesi.
I tempi sono fondamentali per avere il giusto equilibrio di tannini e polifenoli evitando l’insorgere di muffe o eccessiva essiccazione.
I primi sei mesi saranno all’aperto senza copertura per favorire la lasciviazione ovvero il dilavamento sotto la pioggia sia per mantenere attiva la flora fungina sia per eliminare i tannini in eccesso.
Le tavole andranno riposizionate periodicamente per evitare scompensi in tal senso, inoltre l’esposizione ai raggi solari deve essere uniforme per tutte le doghe per favorire la depolimerizzazione di polifenoli e tannini.
Questa pratica molto costosa non viene eseguita da tutti i bottai.
 

COSTRUZIONE DELLE BOTTI PICCOLE

Si procede alla refilatura ovvero all’eliminazione di tutte le parti dell’alburno e del midollo eventualmente ancora presenti sulla doga stagionata.
Segue la sagomatura ovvero il taglio manuale per ottenere una doga più larga nella parte centrale e più affusolata alle estremità per seguire al meglio la forma della botte.
L’allestimento della gonna è il successivo passaggio ovvero il posizionamento delle doghe numerate e selezionate raggruppate superiormente dentro un cerchio.

La piegatura è l’operazione seguente. Viene posizionato un braciere al centro della gonna per favorire la penetrazione del calore. Le doghe vengono anche bagnate per aumentare il calore interno.
Dopo 10 massimo 15 minuti si iniziano a piegare le doghe con l’aiuto di un martinetto meccanico e si iniziano a mettere gli anelli.
Dopo di che si può decidere di continuare la tostatura del legno o terminare l’operazione.
La tostatura può essere fatta con un coperchio per trattenere il calore o all’aperto ovvero con fiamma libera come ben si evince dalla fotografia a destra.
Il grado di tostatura è proporzionale all’uso che si vuole fare della botte.

Normalmente gli americani tendono a volere botti particolarmente bruciate per avere una cessione importante di profumi dolci e vanigliati, mentre la scuola europea preferisce botti a media tostatura per avere una minore cessione di questi elementi ed un invecchiamento più lento.
Buona parte dell’apporto aromatico delle botti ai distillati ed al vino deriva proprio dall’operazione precedente.
Il calore genera, distrugge e volatilizza dei composti aromatici fondamentali per il liquido nella botte.
I principali sono dei derivati dei polisaccaridi, aldeidi che donano al naso sentori di mandorle, nocciole e frutta secca in generale, malto tostato, fava di cacao, caffè e pane al burro che sono indici dell’invecchiamento in legno, denominati normalmente aromi terziari.
Dopo di che si procede all’assemblaggio dei fondi che chiuderanno la botte ermeticamente, all’aggiunta dei cerchi definitivi spinti in loco da mani sagge con martello e scalpello e marcatura al laser.

COSTRUZIONE DELLE BOTTI GRANDI

Le botti grandi  seguono la costruzione delle botti piccole con la piegatura al vapore delle doghe, decisamente più spesse e difficili di quelle delle barrique.
Anticamente si usava anche assottigliare la parte centrale delle doghe per favorire la piegatura ma che comprometteva nel lungo periodo la struttura e la resistenza delle botti.
Si può usare anche la piegatura mista con l’uso del vapore e il fuoco acceso, come per le barrique al centro della botte.
La tostatura è comunque presente per favorire lo sviluppo delle sostanze aromatiche come per i barili descritti precedentemente.
Successivamente si posizionano i cerchi ed i fondi, sempre concavi per via della pressione, con chiodi di acciaio o di legno.
Successivamente si procede alla lisciatura esterna, elemento mancante nelle barrique, ed alla levigazione interna. Mancando la forte tostatura delle botti piccole questo passaggio è fondamentale per le successive pulizie che seguono ad ogni fine invecchiamento di un vino o distillato.
Segue la verniciatura esterna che è facoltativa e che ha una funzione di protezione delle doghe oltre che estetica.

UTILIZZO

L’industria del vino, di cui sapere bere non tratta volutamente utilizza questi contenitori per elevare il vino corredati di altri come cemento, vetroresina o terracotta, che per scelta non vengono analizzati.
Le distillerie e gli opifici, oggetto invece di studio ed approfondimento sul sito, generalmente utilizzano carati di questi due tipi di varie capienze per i loro liquidi.
Come detto il legno di Limousin sembra essere quello più adatto alle acquaviti e spesso si utilizzano anche botti di secondo o terzo passaggio o come nel caso degli americani sempre e solo nuove per avere il massimo dei sentori della tostatura.
Se si vuole approfondire il discorso degli invecchiamenti dei distillati e dei liquori l’invito è di visitare il sito nei paragrafi dedicati.

 

( si ringrazia la Vi.En Editore di Calosso per la fonte importantissima de “I contorni del vino” edito nel 2012 e la Botti Gamba di Castel Alfero per le foto inerenti alla produzione ed alla consulenza per gli aspetti tecnici)

La Storia del Vetro

La storia del vetro e dei contenitori ottenuti con questo materiale, le bottiglie, è quanto mai interessante e poco conosciuta. Questo perché come barman ormai riteniamo questo “strumento di lavoro” come acquisito e di poco conto. Semmai parliamo di curiosità ed “eccitazione” per le magnifiche bottiglie di alcuni spirits, nati nell’ultimo decennio, che hanno attirano la nostra attenzione. Questo perché la forma della bottiglia, il cosiddetto pack, spesso unita ad un’etichetta particolare, rimane l’unico modo per stupire ancora il consumatore. Questa fenomeno inizia, solitamente, quando il liquido è stato già declinato in ogni maniera, con soluzioni aromatiche territoriali o del tutto originali, come nel caso della vodka o del gin.
Il costo superiore dell’operazione la rende solitamente l’ultima adottata dagli attori del mercato, nella fase di maturità del prodotto, tranne rare eccezioni.

Ma veniamo alla storia del vetro, al vero motivo del paragrafo.
Il vetro ha avuto un lungo cammino, da materia preziosa e coperta dal segreto produttivo fino alla produzione di bottiglie da pochi centesimi di euro al pezzo, per i prodotti di fascia bassa.
Fortunatamente, nonostante il costo più elevato e le difficoltà produttive rispetto alla plastica, il vetro non è stato sconfitto come qualcuno presagiva. Semmai è stato ridimensionato sopra tutto per i prodotti come l’acqua dove il prezzo di vendita si gioca sui centesimi, o negli invlucri dedicati ai prodotti discount, si pensi alla birra di fascia bassa.
Ma per i prodotti premium e lusso il vetro mantiene il suo status, anzi ha visto aumentare le soluzioni estetiche con serigrafie e satinature.

Le prime testimonianze.

Come accade quasi sempre quando si parla di ricostruzione storica il condizionale è d’obbligo, così come cercare di risalire alle origini che sono spesso avvolte da mistero.
La storia del vetro e delle bottiglie non fa eccezioni.
La leggenda più diffusa circa la nascita del vetro è molto antica, di epoca romana, ed è legata a Plinio. Questo racconto, lacunoso e sommario, rimane, ancora oggi, la testimonianza più antica in nostro possesso. Lo storiografo romano racconta: “E’ proprio in questo piccolo litorale (…) che molti secoli fa ebbe origine il vetro. Si narra che una nave di mercanti di soda sia li approdata. I mercanti riversatisi sulla spiaggia cominciarono a preparare le cibarie, ma non essendovi pietra adatta a sostenere il focolare, posero sotto i calderoni dei pani di soda che avevano preso dal loro carico, ma quando li accesero dopo che erano stati impastati con la sabbia, un rivo di nuovo trasparente liquido cominciò a fluire”
Questa teoria, per quanto contenga degli elementi di verità, sembra lontana dal soddisfare pienamente, in quanto le temperature necessarie alla formazione del vetro dovrebbero essere ben superiori.

Ma gli ingredienti sono praticamente quelli giusti, in quanto la sabbia contiene silice, la materia base del vetro,  poi abbiamo il carbonato di sodio, usato come coadiuvante, che si trova nella soda, mentre le alghe che sicuramente si trovavano sulla spiaggia, hanno elevate quantità di carbonato di calcio, lo stabilizzante.
Rimane da spiegare come sia potuta accadere l’esatta dosatura degli ingredienti ma sopratutto come si sia potuto avere la corretta intensità del fuoco. Vista la dispersione della fiamma, non avrebbe potuto raggiungere le temperature necessarie che invece si trovano in una forno chiuso.
Se Plinio non ci dà risposte adeguate neanche le altre teorie attualmente sul mercato.
Qualcuno ipotizza che gli uomini abbiano trovato pezzi vetrificati di sabbia dopo la caduta di un fulmine, il quale ha sicuramente l’energia necessaria per fondere gli elementi, e che abbiano cercato di riprodurne, almeno in parte il calore, dando vita ai primi tentativi.

I sostenitori del paleo-contatto fra noi e le civiltà superiori provenienti da altri pianeti, pensano invece che la comparsa del sapere della lavorazione del vetro nell’Antico Egitto, sia un’ulteriore prova di questo. Ma i ritrovamenti dei piccoli vasi nella tomba del faraone Tutmosi III sono postumi ad altri manufatti in vetro assiro babilonesi.
La cultura superiore di questa civiltà, riferendosi sopratutto alle misteriose piramidi, ha sempre alimentato questa fantasiosa teoria, e la bellezza dei monili e dei manufatti in vetro farebbero presumere conoscenze e tecniche praticamente moderne. La verità sarebbe ben più terrena. Durante le campagne militari, che videro la definitiva sconfitta degli Assiri nel 612 a.C.,  gli egiziani razziarono questi oggetti e ne carpirono i segreti portando nelle loro città gli artigiani vetrai.
Abbandonando le teorie e le leggende, le prime frammentarie informazioni sul vetro arrivano proprio da Fenici ed Egizi, ma non ci permettono di stabilire con esattezza l’origine e la scoperta di esso.

Ritrovamenti molto interessanti.

Il ritrovamento di una barra di vetro blu nella rovine di Eushununna risalente al XXIII secolo a.C. e di un blocco del medesimo materiale a Endu sempre in Mesopotamia aggiungono mistero a questa storia. Non dimentichiamoci che in questa area, culla dell civiltà sono stati anche trovati i primi alambicchi rudimentali di ceramica, si pensa per la distillazione delle pece.
Ma non vi sono documenti scritti, ma d’altra parte i segreti produttivi si trasmettevano a livello orale, di padre in figlio e non si scrivevano certo sui papiri per divulgarli.
Maggiori notizie ci arrivano quando il sapere del vetro giunge, tramite guerre e commerci, nella Persia, sull’Isola di Cipro, ed in Siria.
Proprio in quel’ultima nazione avrà inizio, all’incirca nel 100 a.C., l’arte della soffiatura del vetro per realizzare bellissime bottigliette per unguenti, ed oggetti destinati alle premiazioni in gare sportive.

Attraverso un tubo di un metro e venti, massimo un metro e sessanta il vetraio soffiava all’interno di una palla incandescente di pasta di vetro. Roteando e modellandolo con un bastone questa massa si potevano ottenere artistiche bottiglie e primordiali vasi.
Nel IX la civiltà araba è ai massimi livelli di conoscenza.
Matematica, astronomia, fisica e medicina (senza dimenticare la distillazione) fanno passi da gigante grazie agli alchimisti che si cimentano anche nella produzione del vetro.
La finezza e l’accuratezza degli oggetti realizzati è superiore ad ogni altro realizzato prima. Colori brillanti ed intensi, trasparenza e resistenza saranno per lungo tempo un riferimento.
Con la caduta dell’Impero Romano d’Oriente, molti vetrai decideranno di trasferirsi, dopo la metà del XIII secolo, a Venezia, città con commerci ricchissimi e centro di cultura ineguagliabile.

I centri di eccellenza di Murano ed Altare.

La scelta cade sull’isola di Murano, separata dalla città dal canale dei Murani, sede secondo alcune fonti di piccoli artigiani del vetro già nel XII secolo.
Le ragioni di questa scelta sono legate al pragmatismo tipico delle culture basati sui commerci.
Gli incendi, piuttosto frequenti, provocati dalle fornaci sarebbero stati circoscritti all’isola e non avrebbero intaccato la città le cui case avevano strutture in legno, senza dimenticare che molte di esse appoggivano su palafitte.
Ma la vera ragione era legata alla sorveglianza. I vetrai non potevano abbandonare l’isola se non con un permesso speciale ed eventuali fughe sarebbero state sicuramente sventate.
Una sorta di Alcatraz senza sbarre…
Questo perché i commercianti di Venezia capirono fin da subito che questa arte sarebbe stata la loro arma vincente nei secoli, ed un elemento distintivo.

Ma il protezionismo non è sempre la risposta giusta. Guerre e avvicendamenti al potere cambiarono le cose, ma sopratutto non dimentichiamo che la tecnologia ed il progresso che non si possono fermare.
Un importante centro di manifattura vetraria sorse ad Altare, cittadina dell’entroterra savonese, quasi contemporaneamente alla realtà veneziana. Le origini dei primi artigiani dovevano essere quasi sicuramente benedettine. Infatti il vetro ebbe per lungo tempo nono solo la funzione di contenitore ma anche di abbellimento delle cattedrali. Pezzi di vetro colorato, uniti magistralmente dagli artigiani, formavano splendide finestre decorative attraverso cui filtrava la luce del sole, dando suggestivi prove della potenza divina.

A differenza dei veneziani che producevano per il commercio, qui gli artigiani erano  artisti e religiosi, pertanto più liberi di portare la loro arte in altri paesi. Vanno fatti poi dei distinguo. Pur trattandosi sempre di vetro gli altaresi erano specializzati nella realizzazione di lastre e non di oggetti lavorati e soffiati, come i muranesi.
I re ed i nobili di Francia chiamarono i primi per abbellire le cattedrali gotiche della Borgogna e della Picardia, ed il pensiero non può che andare alle mille finestre decorate di Chartres, Orleans ed Amiens.
Questa nazione offrì anche agevolazioni fiscali affinché questi maestri del vetro aprissero in loco delle attività.

Le prime lavorazioni industriali.

Nel 1688 nella cittadina di St Gobain (oggi è il nome di un importante fabbrica di cristalli per auto e abitazioni) poco lontano da Amiens capoluogo della Picardia, i maestri vetrai realizzarono la prima lastra di vetro omogenea.
Questa invenzione fece si che si potessero fabbricare gli specchi che andarono poi a decorare i palazzi dell’epoca.
Questo fu l’inizio della standardizzazione dei processi produttivi.
Le macchine da qui in poi andarono via via sostituendo l’abilità dell’uomo in nome dell’abbassamento dei costi. Il Seicento segnerà una profonda crisi sia a Murano come ad Altare.
In giro per l’Europa si andavano formando altri centri di eccellenza come la Boemia, il cui cristallo ebbe grande diffusione nel Settecento. Inglesi e tedeschi fecero passi da gigante con nuovi forni e nuovi metodi di lavorazione. Nel 1867 Friederich Siemens creò l’invenzione che, di fatto, accelerò la produzione del vetro, e la sua industrializzazione, il forno continuo a bacino che praticamente poteva funzionare ininterrottamente.
Sempre nell’Ottocento nacque la pressa per vetro che sostituì il soffiatore, e agli inizi del Novecento, precisamente nel 1903 vide la luce la prima macchina per la produzione in serie delle bottiglie.
La inventò Michael J. Owens e con essa riescì a produrre fino a 2500 bottiglia all’ora.

La goccia veniva aspirata dalla macchina dentro una forma metallica ed una volta formata con il vetro ancora caldo, veniva tagliata automaticamente. Ma il cui costo era però solo alla portata di poche aziende e non si diffuse rapidamente.
In questo modo si spiegherebbe come mai quasi tutti i liquidi presenti nei bar fino ai primi decenni, dal vino al vermouth, venissero venduti in botti. Il liquido veniva poi imbottigliato a cura del barista all’interno delle bottiglie spedite sul primo ordine, che venivano riempite decine di volte. L’etichetta di vermouth a destra porta infatti la dicitura “messo in bottiglia dal cliente, testimonianza di questa pratica.
La definitiva svolta per l’abbassamento dei costi sulle bottiglie di vetro arrivò nel 1925 con l’invenzione degli ingegneri Ingle e Smith con l’ottimizzazione della precedente macchina. La macchina non aspirava più il materiale ma soffiava la palla di vetro dentro un pre-stampo e per poi essere trasferita dentro un secondo che, sempre soffiando, gli dava la forma desiderata.

La produzione divenne pertanto poco costosa e alla portata di tutte le aziende di liquori, anche se la pratica di vendere in botte rimase fino agli anni Cinquanta quando venne abolita per decreto dallo Stato Italiano per sopprimere le numerosi frodi.
Negli anni Trenta abbiamo modo di vedere cataloghi con oltre cinquanta prodotti liquoristici prodotti da una singola azienda e praticamente più della metà hanno una bottiglia con forma e decorazioni dedicate.
Gli stampi costano poco, c’è una gran concorrenza e non si bada a spese per personalizzare i prodotti.
Nel Dopoguerra le cose cambiano drasticamente, il numero dei produttori di bottiglie e contenitori in genere scende progressivamente per arrivare ad oggi dove gli attori del mercato si possono contare sulle dite delle mani.
Oggi uno stampo per una bottiglia personalizzata sia con un logo o con una scritta, o ancora peggio di forma particolare, costa da alcuni a svariate migliaia di euro con minimi d’ordine in grado di far desistere i produttori che non abbiano le idee ben chiare.

 

Rimangono comunque ricchi cataloghi con diverse decine di proposte in grado di soddisfare quasi tutte le richieste.
Il vetro quindi rimane centrale nell’industria dei liquori e dei distillati.
Ad esempio il Vermouth di Torino, vieta espressamente da disciplinare l’uso di contenitori di plastica, sia essi bag in box o Pet, così come la totalità dei vini Doc e Docg.
La plastica infatti, per quanto abbia fatto passi da gigante, patisce sempre l’effetto solvente dell’alcol e, anche se nettamente migliorata dal progresso tecnico, “cede” sempre qualcosa al liquido, specie se vi è una lunga permanenza del liquido. Fanno eccezione alcune plastiche alimentari il cui costo però rimane ancora alto, fermo restando che, su alcuni prodotti, il consumatore finale non è ancora pronto ad accogliere al cento per cento determinati involucri e confezionamenti.